IL CARRO
utti i pezzi modellati a mano con la creta pastosa erano pronti sul tavolo per l’assemblaggio del carro, “La settima carta dei tarocchi”, un carro guidato da un condottiero davanti due cavalli, uno vuol tirare il carro a destra l’altro a sinistra, così per forze contrapposte il carro va diritto, dentro l’infinito piacere e godimento animale. Con la visione dell’apertura generosa delle due gambe di Pia appoggiate sul tavolo, Beppe comincia a incollare un cavallo sul supporto, mettendo un dito nella miscela di terra e acqua.
Il carro pronto, incollato con tutte le sue parti stava lì, i cavalli, il carro imponente con le sue quattro ruote massicce portano il suo carico umano vizioso ed inutile, guidato da un uomo con la testa quadrata, verso direzioni dove si dovrebbero incontrare tutte le strade nell’amore: carezze, comprensioni, intese, leccate, degustazioni animate da avvicinamenti stringenti e toccanti.
Il condottiero di creta unito con il suo pene al riparo anteriore del carro, inciso con emblemi simbolici, prosegue la sua strada diritta ascoltando disinteressato con le orecchie semi asciutte le solite lamentele sui misfatti umani, dietro nel carro. Beppe annaffiando la scultura ogni tanto per poter continuare a lavorarla, ignorava quello a cui stava dando vita: lui aveva appoggiato le sue mani sul sedere di Pia, non vedendo più la schiena, fuori dal suo campo visivo e univa la terza dimensione con il sesto senso, vicino allo svenimento.
Il trasporto del carro grezzo al forno per la cottura, si tratta sempre di una certa distanza, è molto delicato e in ogni momento, ad ogni curva, qualsiasi ostacolo incontra può staccarsi o rompersi un pezzo o una figura. Infatti la coppia unita nel sesso subiva una rottura importante, Pia la bagnava con la sua saliva, che era sempre abbondante e il pezzo mancante molto caro a Beppe cresceva e così proseguirono il trasporto.
Tempo di essiccazione passata, il carro poteva essere cotto e tornava nelle mani di Beppe, la creta rivelava naturalmente le diverse proprietà dei suoi colori e le differenti provenienze d’origine, splendeva nella sua luce eterna. Pia guardando Beppe con l’opera nella mano, dice, come mi piace quest’oggetto fatto con le tue mani, creato cerebralmente, con affetto e amore.
E lo prende in visione ravvicinata.
PIASTRELLE
Tutte le piastrelle nere, numerate sul retro, più di cento, sono stese nel garage di un amico nelle vicine montagne, poco distante dalla città della ceramica per eccellenza. La composizione astratta, dovuta all’influenza diretta di Pia, che stava lì con il suo cappellino jeans, sempre pronta e vogliosa e Beppe cominciò a dipingere piegato sulle ginocchia: acrobazia fisica e mentale. I tanti colori lustri, gli ori, gli argenti, il platino erano allo stato liquido e di colore marrone. Su quella grande superficie nera Beppe usava diverse tecniche. Figure animalesche spaziavano, toccando e sfuggendo ai pericoli e ai piaceri, dal basso in alto e in contrario: egli sentiva il fiato sempre caldo di Pia sulla nuca. Il lavoro proseguiva. Le forti contrazioni notturne di Pia confermavano nel modo più assoluto la buona riuscita di quest’ avventurosa ricerca nell’anima di quei due, come il movimento dinamico liberatorio sulla superficie delle piastrelle.
Al terzo giorno Beppe con la sua amata musa si avvia, con le piastrelle ben imballate e protette, al grande forno a tunnel, nella città della ceramica, in una azienda leader nella ricerca di tecniche e materiali. Le piastrelle, al terzo fuoco, viaggiavano su rulli verso la cottura, per uscire dopo una mezz’ora già raffreddate.
Beppe ignorava le occhiate di Pia, anzi era fuori di sé: di una piastrella era uscito solo un pezzo. Quella piastrella si è spaccata in tre, i due pezzi caduti nel forno erano introvabili. Ricerche disperate, lo spostamento di tanti mattoni refrattari roventi non portava a nessun esito. Beppe sudava sangue e Pia si era ritirata in un angolo commossa.
La piastrella mancante risultava proprio in mezzo, centrale nella composizione. Tornato alla base nel garage, Beppe meditando, ricordando, immaginando, ricostruendo quella piastrella di centimetri venti per venti, e nera, era nella trance totale. Lui doveva ricordarsi di quel pezzettino del grande manufatto, i colori e le tecniche usate. Non aveva nessun riferimento. La piastrella nera dipinta con i colori marroni era quasi invisibile, sul fondo.
Ecco, qui salta fuori la esperienza, la professionalità, l’artigianato, nel sangue dalla gavetta: Beppe riesce al primo tentativo a rimpiazzare la piastrella mancante, con i complimenti e le strette di mano dei fornai.
La proposta di Pia fu presa al volo da Beppe, una puntata al vicino mare per ritrovare se stesso e l’altra, in seguito allo stress subito. Il mare agitato, le onde rompendosi sul molo incavato, produceva inquietanti fischi celesti. Nella piccola stanzetta cenavano, quasi in piedi. Beppe dice, molla per un momento la forchetta voglio anche io un pesciolino, dell’unica scatola a disposizione. Per eseguire il desiderio di Beppe, Pia stupita di se stessa, passando la forchetta lo sfrega con le sue grosse tette scoperte e usa l’olio della scatola per scoprire nuovi percorsi multiformi come nella varietà della composizione sulle piastrelle. Fino lì non è arrivato mai nessuno, diceva Pia dopo felice e tranquilla.
Poi si addormentavano abbracciati a cucchiaio.
PIATTI
Beppe partiva alle quattro di mattina per lavorare nel luogo conosciutissimo nella Toscana, centro della creta rossa usata per grandi oggetti di terracotta come vasi, piatti, recipienti per edilizia, giardini e case.
Lui era presente alle otto e mezza nel laboratorio dopo un lungo viaggio e un abbraccio di Pia. “Lavorare la terra fresca è per me un grande piacere”, dice Beppe a Angelo, titolare del laboratorio, che gli portava i grandi piatti appena torniti con addosso un grembiule di cuoio macchiato di terra rossa. Le enormi fette di creta spesse stese sul tavolo davanti a Beppe erano pronte per essere tagliate nelle forme volute e incollate sui piatti.
Pia non aspettava altro che il ritorno di Beppe dalla bottega di ceramica, quando, stanco ma non troppo, faceva la doccia per rinfrescarsi e rilassarsi, grazie a lei e all’acqua calda e al sapone. Lei riusciva con le sue piccole mani e la sua innata femminilità a sedersi naturalmente sopra Beppe cambiando posizione continuamente, un’altalena di goduria dove uno poi finisce per perdere ragione e sensi, sentire solo se stesso, con lui in felice mascolino delirio. Non lo mollava neanche un attimo, saltando la cena per rimanere sotto le lenzuola tutta la notte. Pia lo svegliava con dolci soffi nell’orecchio, nella mano teneva il porta attrezzi di Beppe che si preparava a uscire, per lavorare, per applicare sulla ceramica le emozioni vissute.
Beppe immaginava lei, ricordando le sue esclamazioni gioiose quando le toccava il suo punto più sensibile, mentre tagliava la terra grezza, la spalmava con la boiaca, misto di fango e acqua, per incollare le forme ottenute sul piatto. Gli intrecci dei corpi incastrati, sovrapposti, incagliati, intasati, capovolti, sudanti e bagnati si trovavano nelle composizioni, nelle figurazioni fissate da Beppe il giorno dopo e quello dopo e quello dopo ancora sui piatti, messi poi sui lunghi scaffali per l’asciugatura.
Un mese dopo i piatti, immersi nella cristallina bianca e cotti a più di mille gradi, tornavano per essere colorati, lavorati e preparati per la seconda cottura. La colorazione procedeva in diversi modi. Beppe usava la colla per fissare vetri colorati spezzati, colori liquidi cremosi speciali per la prossima infornata a novecento gradi. Occorreva portare piatto per piatto a mano, caricare la macchina per il trasporto, scaricarli e portarli vicino al forno in attesa della cottura. Pia mostrava pazienza e intanto faceva le sue cose; negli intervalli prolungati finivano sotto coperte e pellicce come due complici nel volere solo bene e dare all’ altro sesso e amore, unificati nell’intesa. Lei sbirciando sotto le coperte gli dice: come è grande.
Arriva il momento che i piatti cotti, tornano di nuovo nelle mani di Beppe che doveva provvedere alla lavorazione del terzo fuoco. Con i colori lustri, ori, argenti, platino e madreperla, Beppe con forza mentale e fertile immaginazione dipinge le parti interessate con questo materiale liquido di colore marrone. Una quindicina di piatti sono pronti di nuovo per essere portati per la cottura del terzo fuoco, a seicentotrenta gradi. Ci vuole un’arte per sistemare più piatti possibile, di questa dimensione, nel forno. I forni vengono programmati elettronicamente, il lento aumento della temperatura, un breve tempo di temperatura costante e il lentissimo abbassamento del calore per arrivare sotto i cento gradi. La durata della cottura è di ventiquattro ore. In questo laboratorio il padrone e gestore degli eventi è Carlo che l’indomani per curiosità, così ha raccontato dopo a Beppe, ha aperto il forno per vedere se tutto andava bene; la temperatura in quel momento era ancora a centocinquanta gradi.
I piatti per la loro stabilità hanno una base molto robusta, spessa per il materiale in quantità molto maggiore, il resto del piatto si assottiglia ai bordi, il raffreddamento per questo procede differenziato. In caso di una apertura del forno fuori regola, l’entrata di aria fredda aggredisce prima gli orli del piatto, solo dopo la base, e questa differenza di temperatura, porta tensione del materiale, cioè, alle spaccature.
Quasi tutti i piatti di quella infornata sono spaccati a metà o in più pezzi.
LA NAVE DEI FOLLI
Iniziò un viaggio predestinato, dopo quel disastro appena sofferto, un viaggio disegnato da furti continui d’affetto, amore e sesso in deliquescenza. Già dopo pochi chilometri Pia dice “mi puoi toccare quando vuoi” e così Beppe guidava fissando contemporaneamente la strada e le gambe aperte, e teneva il volante con la mano sinistra.
Di notte si fermarono in un hotel-ristorante dove già prima di cena volavano abbracci e baci inumiditi da tutte le parti. E qui, è nata l’idea dei folli, che navigano in barche, su macchine a due ruote, e si muovono anche a piedi, magari lenti ma con idee fisse, per finire tutti ad accoppiarsi realmente o per finta. La cena e l’ambiente semplice ed accogliente, mentre gustavano le specialità della casa assieme, approfondivano ed immaginavano gli altri viaggiatori, sempre a caccia di amori veri o falsi e soddisfazioni, non gridano non urlano ma richiamano la gioia per continuare per finire e per ricominciare. Le burrasche, le tempeste di neve o di sabbia, nel deserto o in montagna, i sentieri di campagna o le autostrade sopraelevate richiamano la forza della vita, l’aiuto, l’amore, per procreare, per continuare, per vivere.
E così il viaggio proseguiva, sessualmente intenso, molto erotismo e amore affettuoso, i due folli assunti come equipaggio da uno schettinato qualunque al comando, nella nave dei folli.
Per la realizzazione della scultura Beppe prendeva la stessa terra usata per la ceramica inserendo in anteprima diversi vetri colorati già usati per la prima infornata. Nei giorni di attesa, di fine essiccamento e cottura, Pia fioriva come una orchidea sotto la lanterna di Lil-lì, con la sua luce, e Beppe mandava la sua ombra di un blu intenso trasparente lasciando bianchissima la neve. Il capriolo con polenta e orgasmo clitorideo e orale, fondevano sera e notte. I folli con o senza nave, al comando l’idiota più decorato e stimato dai suoi simili.
Erano sulla rotta del disastro totale.
CERAMICA IMMORTALE
Beppe sta lavorando a un’opera emblematica, simbolica, usando e applicando le forme che completano le figure in terra, le più semplici, sintetizzando e cercando l’immortalità in un esempio, in una situazione di vita così naturale e semplice da essere una rara eccezione nella realtà quotidiana. Pia lo influenzava con la sua presenza spiritualmente e fisicamente. Mangiavano anguilla con piselli, dopo aver fatto l’amore: un sonnellino, poi un caffè doppio e ancora l’amore. Per incoronare la giornata gli dice, “sai che l’abbiamo fatto tre volte”.
La terracotta doveva asciugare prima di essere portata nel laboratorio per la cottura e nel frattempo la situazione, la costellazione della esistenza dei due cambiava drasticamente, in modo irreparabile. Seduti di fronte, a tavola, mentre bevevano l’ultimo bicchiere di vino insieme, mancavano loro le parole, i gesti, le toccate, le occhiate una volta intense, parlanti e focose, ridotte ormai a sguardi vuoti e morti. Riflessi nella vetrina di fronte, passavano le macchine, i tram, le moto e i pedoni in un ritmo sfrenato. Dietro la scena, orchestrata dal silenzio – la morte mentale.
Dopo qualche tempo, Beppe passava al forno della ceramica per ritirare la sua scultura cotta. La porta del forno era ancora aperta e Carlo mostrava il misfatto.
La terracotta creata da Beppe era scoppiata in diecimila pezzi.