IL MARE

a spiaggia selvaggia, bianca, invasa dal sole rovente in contrasto col cielo chiaro scuro, sfumature in cobalto. La pelle dell’acqua verde smeraldo luccicante galleggia su masse inesistenti, forse materiche. Fondali a portata di mano. La spiaggia lunga estesa bordata di alte dune con la tipica vegetazione del Salento.
La stradina sabbiosa portava nel paesino, che era composto da una quindicina di casette abbaglianti, imbiancate con la calce ogni tanto, senza luce elettrica e telefono. Quella poca gente che c’era, si ritrovava nel tardo pomeriggio  nell’unico luogo possibile, nella casa più grande del paesino con dietro un giardino abbandonato, là dove il padrone, un uomo di bassa statura con una nuca molto pronunziata che univa idealmente la testa con la schiena curva, stivava tanti diversi attrezzi e materiali più o meno arrugginiti. Lì, nell’antica costruzione, tipica masseria del sud con i muri sfuggenti verso il tetto, era il posto per vendere pane e altri alimentari di prima necessità. A quell’ora la griglia era già accesa. La gente, quasi solo uomini, si trovava appunto a quell’ora nella masseria per gustare i pezzi di cavallo e di asino ben arrostito sulle braci di carbone, che con il vino rosato locale di robusta gradazione si accompagnavano benissimo. Allora nessuno dei paesani frequentava le spiagge per fare un bagno o prendere il sole. Non era nella loro usanza.
Ogni mercoledì passava il macellaio con la sua Ape, un piccolo triciclo, con buona carne da lui stesso macellata e i vari salumi preparati secondo esperienze fatte nei paesi del nord, che raccontava con orgoglio.
Il movimento iniziava già prima dell’alba, all’uscita del canale che portava poca acqua in mare, bastava per ospitare una decina di barchette, che venivano usate per il traffico locale di contrabbando di sigarette e per la pesca di frodo con le bombe fatte in casa.
Anche Beppe aveva lì la sua barchetta, al riparo da vento scirocco e onde. Lui, fisico smilzo e agile, era conosciuto e rispettato dalle poche persone che frequentavano il luogo, viveva in un gruppo di fidati “sconosciuti”. Beppe, solitario, faceva le sue cose senza mai chiedere niente a nessuno, parlava poco o niente e non si confidava neanche di sera attorno alle grigliate con gli amici occasionali, perché lui veniva da un paese distante da quella spiaggia, d’altronde altra parte anche gli amici si comportavano nello stesso modo.
Quella notte la luna stendeva sul mare un tappeto triangolare di luce dorata. Beppe tirava fuori le diverse attrezzature dal suo sgabuzzino. Vestito leggermente, già di buon mattino l’aria era gradevole e carezzava la pelle piacevolmente, come le scarpe sportive che in barca portava per movimenti di sicurezza e protezione. Cominciò a preparare la sua barchetta con tutto il necessario per l’uscita in mare. La cura con la quale fissava i galleggianti gonfiabili ai bordi della barca, non lasciava nessun dubbio che sarebbe andato oggi in mare, non come al solito, però con una certa preoccupazione. Ma tutte quelle considerazioni non portavano mai Beppe in uno stato di paura.
Il sole si presentava all’orizzonte come una scheggia rovente senza toccare l’acqua.
Beppe tirando e spingendo la barca fuori dal canale poteva finalmente prendere posto nella sua piccola imbarcazione e puntare verso le secche antistanti alla costa.
Quelle secche, segnate sulle carte nautiche, furono teatro di spettacolari e drammatici disastri e naufragi per tanti natanti nei secoli. Per di più, nella seconda guerra mondiale, gli aeroplani prima di rientrare alle loro basi, scaricavano bombe e siluri che non erano riusciti a mettere a segno. Le secche, impedivano qualsiasi passaggio di navi in quel tratto di mare, dalla spiaggia fino ai “cavalli”, il nome di due rocce che sfiorando la superficie chiudevano la barriera rocciosa. Una trappola per la navigazione dai tempi remoti.
Le secche sono segnalate da due fari. Beppe poteva pescare lì, cercare e magari trovare in quel cimitero storico testimonianze umane che erano a portata di mano.
Ragione che spingeva lui ogni volta in mare per provare emozioni, di vedere e toccare, reperti riportati alla vista dalle burrasche che diventavano nella sua mente eventi eccezionali, capitati solo ieri.
Da un lato essere curioso e dall’altro lato tentare l’avventura, avvicinarsi al limite delle proprie forze fisiche e mentali, quel limite facilmente sfugge dal controllo e si perde la ragione, la conoscenza, la vita.
Essere solo, ma solo con se stessi, si può essere solo nel mare, sia in superficie che in immersione.
Una giornata così bella sembrava che non si potesse ripetere mai più e Beppe arrivato sul posto tranquillo, indossa pinne, maschera e si butta dalla prua, la punta della barca, nell’acqua.
L’acqua trasparente e limpida, il mare uno specchio, permettevano una visibilità impressionante sott’acqua. La barca ancorata a due punti sul fondo, Beppe nuotava a buona distanza da essa, osservando i fondali, metà roccia metà sabbia. Branchi di grosse cernie pascolavano nella luce sopra il fondo oltremare scuro intenso. Canaloni spaccano crostoni di roccia lasciando spazio e nascondigli per pesci e pesciolini di vario tipo e colore. Argentati saraghi cercavano protezione in tane sotto massi pietrosi. Alghe e molluschi facevano da contorno come serviti su piatti vitrei e lucenti.
Di tanto in tanto Beppe si immergeva in apnea per ispezionare meglio i fondali, più da vicino. La barriera rocciosa sfiorava la superficie per poi perdersi in profondità, lasciando spazio e tempo infinito, con colori scuri e immagini sfocate. Campi erbosi, verdastri dipinti dalla luce mattutina in contrasto con le vibranti macchie sabbiose, il passaggio di una manta gigante, in volo acquatico, con movimenti lenti, potenti e armoniosi, mostravano a Beppe ancora una volta le meraviglie del creato.
Nascosti fra roccia, alghe, incrostazioni, semisommersi nelle sabbia si stagliavano tre oggetti di non più di un metro e mezzo di lunghezza. L’apnea, salendo in superficie per riprendere aria per poi scendere e resistere in profondità, permetteva a Beppe di individuare da vicino tre cannoni spagnoli posizionati a stella. Un’ancora attaccata a una lunga catena segnalava un dramma vissuto. Le forti incrostazioni calcaree, il peso notevole e la profondità non permettevano a Beppe di pensare ad un recupero, lui però segnava il punto sulla carta nautica. Abbandonando questa scoperta, Beppe continuava a girare incuriosito le secche, spostando la barca di tanto in tanto, per sicurezza.
Il mare cominciò ad alzarsi, piccole ochette schiumose incoronavano già le onde viaggiando cavalcate dal vento. Da lontano, con una certa frequenza, si sentivano le detonazioni delle bombe dei pescatori di frodo, e il conseguente innalzarsi di colonne d’acqua, percepito molto di più sott’acqua che in superficie.
La ricerca di Beppe continuava. Volando in apnea sopra un costone, poco distante dai cannoni spagnoli, Beppe rimaneva scioccato, fulminato dall’immagine che gli si presentava a una profondità maggiore. In un lampo capì che non aveva, ancora una volta, nessuna chance di portare in superficie quest’incredibile meravigliosa visione. Un piccolo scrigno inclinato, semisommerso, era chiuso fra incrostazioni, sabbia, alghe e colli d’anfore. La sua dimensione non superava i cinquanta per trenta centimetri.
Il piccolo baule dal coperchio tondo aveva la struttura assicurata con fascette ferrose chiodate protettive per salvare gli angoli e garantire stabilità e sicurezza. Pure la chiusura era intatta. Una burrasca ha scoperto questo piccolo cofano del tesoro nascosto per secoli nella sabbia. Beppe, nel cuore incisa la felice illusione, la mente che gli scoppiava di fantastiche e pittoresche immaginazioni disperatamente toccava il suo baule con un dito: dentro forse, tanti gioielli, perle e monete d’oro.
Non era istruito né attrezzato per recuperare il suo tesoro. Non gli veniva neanche lontanamente l’idea di chiedere aiuto o assistenza ai falsi amici nel paesino: quando c’è di mezzo una fortuna è meglio inabissarsi nel silenzio, concludeva Beppe. Un’altra annotazione sulla carta nautica. Già nella sua testa macinava il progetto di prendere durante l’inverno il brevetto subacqueo per tornare l’anno successivo sul posto.
Ma intanto la giornata continuava a dare le sue emozioni e sorprese straordinarie. Beppe instancabile non voleva mollare, tornare a casa a mani vuote, e così continuava a osservare fondali, canali, spaccature e cavernette. Spostava di continuo la barca tra le onde sempre più agitate, per osservare in sicurezza il fondo.
A un tratto, nascosta fra tanti colli d’anfore, ne vede una quasi intera. La forma corrispondeva a un bell’esemplare con l’inizio dei manici ben pronunziati. Beppe tornava nella barchetta, di prua con l’onda favorevole, controllava l’ancoraggio, prendeva tutte le cime possibili e scendeva in apnea, onda favorevole, nell’acqua. Felice ma cieco di gioia per aver trovato un’anfora, la annodava con i nodi più idonei al caso con il risultato di una anfora ingabbiata pronta per il recupero, fatica di tanti immersioni.
Beppe salendo dalla prua in barca, sempre onda permettendo, cominciò a recuperare l’anfora. Con le gambe appoggiate sui due bordi della barca, tirava la cima, aspettando la cresta dell’onda perché lo aiutasse nell’impresa. Il peso era notevole, la corda fregava le sue mani che cominciavano a sanguinare, ma riuscì a tirare a bordo l’anfora.
Tornando dopo ore in mare nel paesino la sua gioia fu trasformata in una enorme delusione. Guardando, ispezionando, curiosando e grattando l’anfora si rivelò una bomba d’aereo di cinquanta chili con quattro detonatori ancora funzionanti. La massa nera che si presentava alla superficie, era niente altro che la polvere nera del primo detonatore corroso. Beppe chiamò gli artificieri che provvidero immediatamente a far brillare l’ordigno della seconda guerra mondiale, in una cava vicina.
Lo scoppio si sentì a molta distanza, polvere e fumo si alzarono in alto per poi svanire nel nulla. La delusione dell’anfora passò presto in secondo piano. La vera scoperta del suo tesoro, Beppe non la confidava con nessuno.
L’anno passò velocemente. Beppe non riuscì a pensare ad altro che al suo tesoro. Come un chiodo fisso, giorno e notte, sognando, lavorando, nuotando, mangiando, dormendo, amando, dipingendo, scolpendo, incidendo, scrivendo, saldando o viaggiando, gli faceva ossessiva compagnia quotidiana.
Sacrifici tutto l’anno, brevettato, attrezzato con il necessario per affrontare l’immersione in curva di sicurezza, tornava sui luoghi scolpiti nella sua mente. Arrivò il momento che Beppe si trovò sullo stesso punto, rintracciato grazie alle indicazioni fatte sulla carta nautica. Il mare è calmo, condizioni ideali per scoprire anche miracoli, ma niente è lo stesso, niente rimane uguale. Delusioni sono fatti non digeriti, però ragionando si può cercare di non disperare. Insomma, il tesoro non c’era più.
La considerazione di Beppe: non cadere in frustrazioni o colpevolezza per non essere stato capace di aver ricuperato lo scrigno allora. Anzi, un ritrovamento di questa portata avrebbe cambiato la sua vita completamente. Il fatto è che in condizioni di ricchezza ed abbondanza, Beppe non avrebbe più avuto il diritto né la ragione di dire certe cose o di esprimersi nel suo mondo artistico.
Il mare calmissimo, Beppe archiviò questa magnifica, emozionante esperienza indimenticabile.
Vicino all’orizzonte le detonazioni dei pescatori di frodo continuavano a fare strage di pesci, così Beppe decise di avvicinarsi a loro con curiosità e cautela. Lui era preparato comunque a una sua immersione, poiché la prima era andata a vuoto per il recupero dello scrigno scomparso anche per la profondità maggiore. Dopo un trasferimento in barca, con il sole splendido, raggiante e afoso si avvicinò al luogo delle detonazioni, ormai visibile a occhio nudo. Sciami di gabbiani sorvolavano la zona. A distanza dalla barca dei bombaroli, gettò le sue ancore e si preparò per la immersione programmata. Beppe si organizzò meticolosamente per la nuova avventura, studiata e curata anticipatamente, ricordandosi di essere solo in mare. Le condizioni per immergersi in quel momento erano ideali. Beppe già vestito di muta, pinne, maschera, coltello, ecc., seduto tranquillo nella sua barca a godersi la rara piatta del mare prima dell’immersione, osservava anche la barca dei bombaroli con i due uomini a bordo a mezzo miglio di distanza.
Ad un certo momento la barca dei bombaroli fa rotta verso di lui. Accostando, uno dei due uomini voleva gettare un secchio pieno di pesci, presi da loro, nella sua barca. Ma Beppe rifiutò questa offerta. Ed ecco la ragione del loro avvicinamento: dice l’uomo sub a Beppe: “mi presti le tue bombole: voglio ricuperare ancora due grandi pesci. Non ho più aria nelle mie, sono già in riserva.” Beppe respinge la sua richiesta.
Come non detto i due uomini tornano al loro punto di partenza.
Beppe continua la preparazione della sua immersione. La sua piccola barca non permette di scendere in acqua di bordo ma solo di prua, infatti doveva legare le bombole di fianco alla barca per calarle in acqua.
Un grido spacca il silenzio, interrompe quella pace celeste. Solo Beppe e i gabbiani sono colpiti da questa violenza acustica. La pace come una cappa protettiva invisibile, appoggiata sul mare piatto, avvolto da un manto riscaldato dal primo sole. Questo grido d’aiuto, astratto, un grido urlato ai quattro venti, che nessuno raccoglie, lontano da riceventi e da appoggi. In quest’identica situazione si trovava anche Beppe: solitudine assoluta, isolato in mezzo al mare, microbo di un universo assoluto, lontano dalla costa, apprestandosi a farne parte, per vivere e sopravvivere. Il bombarolo subacqueo con poca aria nelle bombole scendeva ancora sui fondali per prendere i due pesci. A distanza, Beppe osservava spaventato l’evento. Come un fulmine il sub saliva dagli abissi. Beppe, paralizzato non poteva fare altro che vedere questa scena incredibile, essere testimone di un dramma, per due pesci. Tutto il corpo del sub di colpo diventava blu scuro, come il colore della sua muta e perdeva la voce. L’altro uomo riusciva comuque a tirarlo a bordo e partire a tutta velocità verso casa, cercando aiuto e assistenza.
Beppe, emotivamente provato, continuava la sua immersione stabilita e organizzata con molta cura.
Nonostante le circostanze, con disciplina, rigore, ragione ed impostazione, pilastri delle condizioni mentali con quale Beppe si identificava, si butta nell’acqua, equipaggiato in piena regola, attrezzato di fucile e con il coltello legato alla sua gamba destra. Con un colpo di pinne arriva al bordo della barca dove erano legate, già nell’acqua, le bombole con gli erogatori montati. Con un mezzo giro del suo corpo, si infila una delle due cinghie che tenevano le bombole. Per una mossa brusca rimane bloccato nel movimento, strozzato sul collo dalla fune che lega le bombole alla barca.
Si rende subito conto che le aveva legate troppo strette all’imbarcazione. La sua testa è immersa per poco sotto la superficie dell’acqua, ma ciò basta per non poter più respirare. Con la mano destra, tira fuori il coltello per tagliare la fune che lo strangola. Il suo limite di sopportazione è superato, l’aria comincia a scarseggiare e si rende conto. Cerca di guardare in basso, vede il coltello luccicante sfilarsi, scivolare via dalla sua mano. Curvando il coltello arriva sul fondo. La cristallina visibilità dell’acqua riduce ingannevolmente la distanza fra il coltello e Beppe, un’eternità per raggiungerlo. Luci, controluce, visioni, trasparenze spettrali prendono corpo suoni penetranti, entrano nello spirito di Beppe. La spiritualità inizia a prendere forme.
Personaggi di allucinazioni, sfocate meravigliose figure che nuotano accanto e attorno alla sua barca per fermarsi poi su tele smisurate dipinte nel suo futuro psichico.
Donne-pesce di forme generose, coperte di bizzarre maschere attaccate con lunghe funi da giostra sfioravano la sua immagine sospesa nell’aria galleggiante, riconosce a volo qualche volto già visto. Creature ittiche, quali vivono solo in estrema profondità, come acquarelli e incisioni, con canti acquatici uniti ai gridi dei gabbiani, per perdersi negli abissi. L’azzurro si ripete, l’oscurità si sposa con la prospettiva: Beppe vede la profondità e cammina nel vuoto, l’azzurro scuro si tinge di bianco, giallastro e arancione. Si evidenziano teste con le braccia ondeggianti a perdita d’ occhio, l’arancio si accoppia con l’azzurro e dipingendo entra in grotte illuminate da pesci luminosi, frequenta mostre allestite con quadri suoi, che non ha mai dipinto, vede testimonianze del suo passato con temi lontani già dimenticati.
Colori che si versano su spazi bianchi, bianco dell’infinito, del niente, del tutto, pennellate, spruzzi, macchie, chiazze si uniscono in un girotondo di realtà vissuta. Beppe, sempre protagonista, vede chiaro il suo mondo, realizzato con linee che descrivono il suo pensiero. Forme illeggibili, riempite di colori, danno l’impressione l’effetto e il rigore di una prigione che non permette di uscire ma neanche di entrare.
Esplorando la mostra nell’abisso, incuriosito si accorge che tocca, vede, sente, urla, grida, soffia, sente caldo e freddo, dolore, carezze e tutto il contrario, di ogni tipo, forma e colore. “Ecco, la terza dimensione”.
Le figure, personaggi, animali, uomo-cavallo, donna-pesce uniti come sollevati d’incanto si alzano per fissarsi in acciaio, ceramica, ferro, terracotta o legno. Sugli acquarelli, oli, acqueforti e acquetinte, le creature cominciano a vivere, a comunicare e parlare: si sente perfino il fruscio del mare.
Tempo fa qualcuno del paesino ha riconosciuto in una delle incisioni pubblicate il coltello che Beppe perse allora al largo, in mare aperto.