Stralsund, primo giorno di scuola
Mio nonno Albin, già qualificato artigiano con grandi esperienze nel campo professionale, prima di essere ammesso all’esame per la qualifica di Maestro, fu obbligato a frequentare per tre anni le botteghe in varie città e paesi e ad attraversare diverse contrade. Questa tradizione tedesca deriva dal Medioevo, così dal Nord della Germania arrivò fino a sud di Napoli, camminando, spostandosi, lavorando, imparando e acquisendo tante metodiche diverse nel lavoro professionale, pittorico-artistiche, sceneggiature teatrali, restauri, porcellane di Meissen, decori ornamentali, scritture e tanto altro, in cambio di ospitalità.
A Stralsund, città anseatica situata sul Mar Baltico, da maestro imprenditore mio nonno comprò nel 1922 una doppia casa mercantile composta da cortile interno e da una cantina con volte a botte in muratura grezza: una “Einbaumhaus”1 di tre piani che alla sua base mostrava il ritratto scolpito del primo proprietario.
Sul retro della casa, inclusa nella proprietà, c’era una gru-torre “Krahnentor” con ruota di legno e fune che fungeva al sollevamento delle merci arrivate dal vicino porto per poi venire scaricate sui pavimenti di legno. Per facilitare lo stivaggio questi pavimenti erano inclinati su tutti i tre piani. Sulla volta della sala fu scoperto un affresco del seicento, la Temperanza, l’arcano XIV dei tarocchi. Oggi la casa, sempre in possesso della famiglia Lindner, è un bene culturale protetto dallo Stato.
Mio padre, Fritz, cresciuto sull’humus paterno, si diplomò a Monaco di Baviera come maestro nelle pitture artigianali. Imprenditore nel ramo edilizio, per hobby dipingeva rose all’interno di vasi di vetro. Nel 1941 si trasferì con la famiglia e l’azienda da Stralsund a Hohensalza (Inowroclaw) in Polonia. Avevo appena concluso la prima elementare, imparando ancora la vecchia scrittura tedesca. Con cinquanta operai svolgeva lavori importanti per lo Stato fino al 1945, poi la fuga dall’avanzata sovietica con l’ultimo treno da bestiame, verso ovest. Sotto giuramento, con la promessa di ritornare per combattere, mio padre poteva accompagnare noi quattro fratelli. Mia madre che aspettava un bambino, potè viaggiare nel treno della Croce Rossa. Arrivati a Schneidemühl, a febbraio, neve, giaccio, bambini morti buttati durante il viaggio. La stazione era invasa da un mare di gente. In arrivo un altro treno dal fronte pieno di soldati più o meno feriti. Non contavo più di dieci ufficiali delle SS distribuiti sulla banchina. Con comandi brevi svuotarono i due treni. La Croce Rossa distribuiva latte caldo ai bambini. Prima furono caricati nel treno le donne con bambini, poi i soldati feriti ed infine tutti gli altri dalle porte e dai finestrini. Nessuno rimase sulla banchina. Il treno partiva, l’ultimo. Si sentivano già le cannonate dal fronte che si avvicinava.
Arrivati a Stralsund, camminando dalla stazione alla casa del nonno, inciampavamo su montagne di rovine. Proprio davanti a casa era esplosa una bomba che aveva lasciato una grande buca.
A fine del febbraio 1945, siamo andati nella piccola azienda agricola di Oskar, marito della sorella di mia madre, Klärchen, a Behrenwalde nell’entroterra di Stralsund. L’avanzata russa proseguiva e fummo costretti a preparare due grandi carri pieni di ogni bene che erano pronti a partire, per fuggire. Oskar, un vero convinto del regime oltre che sindaco, macellaio, capo caccia e altro, vietò la fuga. Oskar in quel periodo aveva fatto ostacoli e trincee contro l’avanzata russa. La fine della guerra era vicina. Un bel giorno di sole, era già metà aprile, trovammo lo zio sindaco fucilato alla testa in un campo di grano, con i piedi e con le mani legati con filo di ferro. Nato durante la fuga, il mio fratellino è morto per insufficienza nutrizionale. Colonne di fuggiaschi, carri con i beni raccolti all’ultimo istante, persi a pezzi lungo il percorso, erano diretti a ovest. Di mattino il cinque maggio del 1945, carri tirati da due piccoli cavalli, occupati da due soldati mongoli, i combattenti d’assalto sfilavano attraverso il paesino senza guardarci.
I guai cominciavano allora. I soldati russi, la retroguardia, bevevano qualsiasi liquido, ubriachi sparavano a qualsiasi cosa; nella confusione fuggivamo nel bosco vicino più o meno mirati con le pallottole vaganti.
Nostro padre nascondeva noi tre fratelli in una soffitta coperta di carta da parati nella vicina azienda agricola, momentaneamente abbandonata. Questa aveva una finestrina che permetteva una scarsa visione sul cortile. Soli, muti e accucciati in quel buco. Un mezzo militare entrò nel cortile con soldati ubriachi e una ragazza giovanissima, amica di giochi fino a pochi giorni prima, violentata da tutto lo squadrone, poi uccisa. Noi, nello stanzino scioccati, paralizzati dalla paura. Dopo quella notte siamo fuggiti con una decina di persone in un boschetto, raccolti in una tenda improvvisata. Come cibo c‘era solo lo speck che ancora oggi non posso più neanche annusare.
Wehrwolf, (soldati allo sbando) partigiani, non si capiva più niente. Mia nonna da parte materna, rimase nell’azienda, si sapeva che i russi hanno un grande rispetto dell’anziano. “Mamushka” cucinava per loro e per noi nel bosco, tenendo a bada i soldati. Dopo ci raccontò che a uno dei soldati diede un colpo in testa con un mestolo. Con il fratello della ragazza violentata e uccisa portavamo una pentola di zuppa dall’azienda al boschetto. Strisciando sulla pancia, più che camminare, incontravamo Wehrwolf e partigiani, stavamo nascosti in buchi e cespugli per tempi incalcolabili, per non farci vedere. In due con la pentola calda dovevamo attraversare la strada frequentata da colonne di mezzi militari. Non potevamo parlare, giravamo nel buio per ore sulle ginocchia con la pentola ancora tiepida, non trovavamo il centro della pineta con i nostri, nessun punto di riferimento, sentendo le voci dei russi quasi addosso.
Stralsund 1952 – La casa del nonno
Sull’isola di Hiddensee 1951
Dopo quelle spiacevoli avventure siamo tornati nella casa del nonno a Stralsund, la casa attaccata ad un albero “Einbaumhaus”, dove le piccole abitazioni attorno facevano cornice ad un ampio vestibolo con ringhiera scolpita in legno che portava sulla tromba delle scale. In quella cornice d’abitazioni vivevano i miei nonni, a Natale sbucciavo chili di piccole patate, raccolte nei campi, per la mia nonna adorata: piccola di statura, graziosa e amabile era originaria del Vogtland. Le patate servivano per i tipici Klöβe del Vogtland preparati con patate crude spremute, cioè private del loro liquido e mischiate con patate cotte, all’interno dadi di pane abbrustoliti. Una delizia accompagnata con selvaggina, Gulasch oppure una specie di brasato marinato nell’aceto. Tempi duri: allevamento di conigli, poi rubati, spighe di grano raccolte nei campi, baratto di aringhe con pane, carbone rubato dai treni in corsa, vacanze sull’isola Hiddensee nelle alte dune di sabbia bianca finissima, una coperta come tenda e cinque chili di patate, cotte con uova dei gabbiani, la ricetta quotidiana.
Intanto si stabilì il regime democratico comunista. Frequentando la scuola dell’obbligo non potevo partecipare alle gite scolastiche, perché mio padre era considerato un capitalista. Finita la scuola, entrai come apprendista nell’impresa edilizia paterna con due collaboratori; frequentando la scuola del mestiere nel luglio del 1952 venni premiato come migliore studente della classe pittori, nell’ambito di un concorso professionale, dalla DDR2 – Staatssekretariat für Berufsausbildung3. In un convento disegnavo gli anziani che godevano il pallido sole seduti davanti alle porte. Nel tempo libero praticavo il ciclismo acrobatico in coppia e fui premiato nel 1953 come campione nella disciplina – distretto di Rostock. Privatamente frequentavo i maestri Leuschner e Tom Beyer come disperato, inventato studente, senza guida né possibilità di poter frequentare una scuola professionale né un’accademia nella DDR.
Diplomato nel mestiere, lasciai dopo cinque anni di tirocinio il nido paterno a Stralsund e andai a Rostock in un reparto dell’impresa statale “HO” Handels Organisation, che si occupava degli allestimenti decorativi delle vetrine dei loro negozi. Di notte nel marzo del 1955, con un biglietto ferroviario di andata e ritorno, Rostock – Zeulenroda, dove abitava un mio cugino, presi il treno però scesi a Berlino. Ero vestito leggero con una borsa di pelle marrone e con una merendina avvolta in carta da pacco. Al mattino, all’ora di punta presi la S-Bahn (Metro), sempre circondato dalla invisibile Stasi e attraversai la frontiera per scendere alla prima stazione ovest – LIBERTÀ. Berlino Dahlem era un punto di raccolta dei profughi, un percorso obbligato d’identificazione. Mi si richiedeva tra l’altro il mio futuro programma professionale, salute, situazione politica, conferma di domicilio di destinazione… un elenco di dodici voci. Ci vollero due settimane per rispondere a tutte le richieste. In quel periodo fuggivano duemilacinquecento persone al giorno. Con tutti i timbri necessari, dall’aeroporto di Tempelhof volai con un quadrimotore da Berlino a Francoforte. Dopo dieci giorni, arrivai all’indirizzo predestinato, a Mannheim, secondo e ultimo luogo d’accoglienza nella Foresta Nera.
Accolto dagli amici trovai subito lavoro in un’impresa di insegne pubblicitarie, abitando in una Kolpinghaus4. In laboratorio la stufa per il riscaldamento a carbone rilasciava l’ossido di carbonio e una sera in tre impiegati ci trovammo stesi per terra nel cortile, risvegliandoci per miracolo in ospedale nel reparto intensivo. Per caso una donna ci aveva visti dalla finestra stesi per terra e chiamò il pronto soccorso.
In quell’anno l’inverno era eccezionale, il fiume Reno era congelato, dipingevo il paesaggio con navi da carico, rimorchiatori e altro, imprigionati nella morsa del ghiaccio. Anche i colori ad olio congelavano! Nel 1956 andai a Heidelberg da un amico, collega di vecchia data di mio padre, che aveva un’azienda edile d’imbiancatura. Lavoravo per sopravvivere. Ho comprato la mia prima bicicletta con undici rate e frequentavo di sera l’American House, sezione pittura. La libertà di movimento mi permetteva di scoprire nuove possibilità. Trovai lavoro come grafico nell’agenzia pubblicitaria “Clar Werbung”. Il primo passo verso una professionalità desiderata. Nel centro commerciale Woolworth, nella pausa pranzo, mangiavo una zuppa di piselli con tre pezzi di pasta per undici centesimi. Lì nell’agenzia ho conosciuto il pittore Sighetti d’origine ungherese, emigrato dall’Argentina, personaggio d’impronta, il quale usava un procedimento chimico che permetteva di togliere il nero e i grigi dalla fotografia in bianco e nero, arrivando poi manualmente al colore. Nel 1955 si trasfrerì a Hannover e io lo seguì per scroprire le formule chimiche. Ormai nel 1957 vivendo e lavorando per lui, il mio unico scopo era scoprire le formule chimiche. Dopo la sua morte, trovai ospitalità a Kirchrode in una piccola pensione familiare, lavorando come libero professionista per aziende come Günther Wagner, Pelikan, Continental, Testanera, Deutsche Grammophon, Henkel, Agfa e tanti altri.
Il problema erano i soldi. Dovevo continuamente viaggiare per visitare i clienti con i mezzi pubblici. La Germania era ancora a terra e le scarse entrate non bastavano. Un giorno nel 1958 consegnai un lavoro alla Pelikan, si trattava di una trasformazione a colori per le scatole di pesci della Günther Wagner, azienda sorella della stessa Pelikan. Il direttore quel giorno mi disse: “Signor Lindner perché non va a Barcellona o Milano, lì le grandi ditte e agenzie pubblicitarie mondiali sono concentrate in una sola città” . Detto, fatto, biglietto ferroviario di sola andata per Milano. Scelta fatta. Pagavo in anticipo un mese di pensione piena, delle cinquantamila lire che avevo in tasca. Nel primo mese, nel marzo 1959, visitai tante aziende e agenzie arrangiandomi in inglese, non sapendo una sola parola di italiano. Il mio primo approccio sociale era il Deutscher Turnverein5 a Cerro-Laveno sul Lago Maggiore, il quale disponeva di una spiaggia con un campeggio. Nel 1960 comprai la Lambretta 150 a Milano con due rate. La fotografia era ancora agli esordi. I miei interventi permettevano di risolvere tanti problemi. Il primo lavoro fu per la Max Factor e trasformai a colori una fotografia in bianco e nero di una modella bionda con tutta la gamma dei rossetti. Il famoso bambino sul barattolo del borotalco Roberts, Panettone-Motta, Charms-Alemagna sono altri esempi. Per la Pirelli ho disegnato pneumatici in diverse posizioni con prospettive sfuggenti usando come campione una striscia di battistrada. Dopo tre mesi di lavoro intenso potevo già andare in vacanza a Finale Ligure e da lì partivo spesso per Parigi ospitato dall’amico Dominique, conosciuto ai tempi nella pensione di Hannover. Durante l’inverno ci incontrammo nel suo chalet a Saint-Gervais-les-Bains a 1800 metri d’altitudine, raggiungibile all’ultimo tratto solo con una slitta trainata da un cavallo. Qui le mie prime esperienze catastrofiche con angoli e curve sugli sci di legno. Dipingevo acquarelli del Monte Bianco con il ghiaccio, per ringraziare dell’ospitalità. Dalla Liguria partivo anche per Marsiglia, dove realizzavo nel porto dei dipinti ad olio e riportavo le tele fresche nel treno.
Marseille 1960, olio su tela 50×60 cm
Pierre e Silva sulla Spider 1962
Frequentai per un anno e mezzo i corsi dell’Accademia di Brera per approfondire l’anatomia. Dipingevo sempre e ovunque, ma ero turbato dalla perfetta bellezza dei paesaggi italiani dai colori forti. Venendo da un paese crudo, dove le nuvole toccano il mare e la terra, grigio, mare fermo o in tempesta, pescherecci a vela, barconi dei pescatori, slitte nell’inverno per la pesca attraverso buchi nel ghiaccio, in qualche modo i quadri si somigliavano. Mi resi conto che dipingevo solo superfici malinconiche, mi legavano con catene all’orizzonte, impedendo di superarlo. Smisi di dipingere.
Impegnato professionalmente, nel 1962 comprai di seconda manouna Spider 1500 cabriolet nera della Fiat con motore Oscar, con la quale ho conquistato la mia futura moglie, la pittrice Silva. Ci incontrammo nella latteria Pirovini in via Fiori Chiari a Milano, ormai nel ricordo di pochi personaggi. Gestita da tre sorelle, la latteria-ristorante era composta da un’entrata con due scalini a scendere e un lungo corridoio con i tavoli. Il ristorante era tappezzato con decine di quadri dati in pagamento da artisti oggi famosi. In cucina, sul grande fornello a legna le pentole fumanti. Ci si serviva da soli e si pagava all’uscita dichiarando il consumato, lire trecento.
Cominciava la collaborazione con gli editori Rizzoli e Mondadori. In tempi diversi, ciascuno pubblicava sei volumi sulla seconda guerra mondiale. Quattro anni di lavoro e trasformavo le foto di guerra dal bianco e nero nei colori dell’epoca. Continuavo nella ricerca fotografica e negli esperimenti chimici, che mi hanno portato alla possibilità di poter modificare i colori sulle diapositive, allora una scoperta importante. Lavoravo sui formati 6×6. La clientela si allargava: Otto Versand, la Base, Vestro, Postal Market, Migro, agenzie pubblicitarie e altri.
La nascita di mia figlia Sabine nel 1964: furono anni felici e godevo della sua crescita, creatura voluta e desiderata ma completamente sconosciuta. Amore sconfinato, incondizionato, infinito.
Nel ex parco Pirelli a Luvinate, dove ho imparato per due anni dal siciliano Ignazio a cavalcare in tutte le condizioni atmosferiche, facevo passeggiate, salto ad ostacoli, corse selvagge “a pelo” senza briglie né sella, alla maniera indiana. Ci eravamo appena trasferiti da Milano.
Nel 1974 nasce la scultura, “Un fiore per la vita”, scultura-disegno, fai da te, taglia e incolla.
La strada era lunga perché non trovavo la terza dimensione, non riuscivo a esprimermi tridimensionalmente. Disegni, guazzo o quadri a olio, tutti realizzati bidimensionalmente.Rimanevano illegibili. Lo spunto spirituale, cerebrale, le possibili vedute oltre l’orizzonte dell’essere, l’ho avuto nel 1966 da Silva che diceva: “un cavallo si può vedere anche in un altro modo, in un modo totalmente diverso, rimanendo comunque riconoscibile come cavallo”. Questo era infatti lo scatto che ho ricevuto, la chiave per la terza dimensione.
Nel disegno diventavo talmente esigente che la punta della matita, come finezza, non mi bastava più e così sono arrivato all’incisione nel 1969. Acquaforte, acquatinta, punta meccanica, acido diretto e altro; avevo di colpo a disposizione una ricchissima gamma tecnica con la possibilità per dire tutto nel mio linguaggio espressivo: i conflitti, le riflessioni, le considerazioni, i ricordi, le emozioni, i desideri, i sogni, le speranze e le denunce.
Nel 1978 presi il brevetto subacqueo e le patenti nautiche, sia vela che motore senza alcun limite. Queste esperienze mi hanno portato tanti nuovi stimoli, prospettive e linguaggi espressivi.Crescendo, maturando e lavorando siamo arrivati al 1979. Abbiamo comprato una volumetria, con l’aspetto di casa, a Besozzo. Mattoni grezzi che si alzavano su un buco di terra con tetto, vista Lago Maggiore ma per me era abbastanza per confermare l’acquisto. Abitando nel vicino paesino di Cocquio, con l’affitto modesto, potevo permettermi di far eseguire i lavori nel cantiere della nuova casa. In pochissimo tempo dovevo imparare tanti mestieri. Usare la fiamma ossidrica, il martello pneumatico, la cazzuola dei muratori, la smerigliatrice, la saldatrice elettrica, calce viva e costruzioni in ferro, porte, finestre, scala e inferriate e la messa in opera. La costruzione del camino all’altezza di lavoro, a fiamma libera, l’ho dovuto buttare giù per tre volte perché non tirava. Poi l’ho ricostruito venendo a conoscenza dei segreti dei friulani per il tiraggio perfetto. La messa in opera di piastrelle nei bagni e scale, murature di pozzetti per l’Enel, telefono e serbatoio per la nafta per un riscaldamento alternativo, tutto sotto terra. Alcuni di questi lavori li ho fatti per poter entrare più presto nella casa. I soldi erano finiti e davanti alla casa un buco di cinque metri con un ponte di legno per entrare. Questa era la situazione quando l’impresa edile lasciò il cantiere. Nella primavera dell’82 siamo entrati in casa, prevedendo già un giorno il trasloco dello studio da Gavirate, in casa nostra a Besozzo, avvenuto nel 2005.
1974 Un fiore per la vita